Bass Concepts: Rhapsody Of Fire – White Wizard

Pronti per il secondo appuntamento con Bass Concepts? Questo giro tocca a White Wizard, splendida mid-tempo piena di pathos. Ora, canzoni del genere non si prestano alla creazione di video funambolici pieni di note complicatissime. Chissenefrega della tecnica! Per una volta, ho deciso di parlare di altri aspetti ugualmente importanti, come ad esempio l’arrangiamento. Come sempre in quasinglese.

Bass concepts: Rhapsody Of Fire – Clash Of Times

Cari tutti, oggi comincio una serie di video nei quali parlo di musica. Non volevo fare il solito video playthrough di alcuni pezzi, ci tengo invece a interagire di più con tutti voi. Di conseguenza ho pensato che la cosa migliore non è solo suonare, ma è anche parlare di musica e in particolare dei concetti che stanno alla base delle composizioni e degli arrangiamenti. Così diventano visibili i pensieri che pochi raccontano. Eccovi il primo video, parla di una canzone dell’ultimo disco dei Rhapsody Of Fire, Clash Of Times. In inglese, ovviamente.

Ricordi di una vecchia storia

Come molti di voi sanno, quasi 14 anni fa ho fatto un’esperienza onestamente incredibile, ho partecipato (e vinto) a un reality show su Italia 1, La Pupa e Il Secchione, versione italiana di Beauty and the Geek. E’ un argomento di cui mi ritrovo sempre volentieri a discutere con chi me lo chiede, ma che alla lunga mi ha visto dare sostanzialmente sempre le stesse risposte – vista anche l’inevitabile ripetitivita’ delle domande, bisogna dirlo. In questi giorni invece e’ accaduto qualcosa di diverso, cosi’ potente da spingermi a riaprire il blog. Per la prima volta ho visto una nuova stagione del programma, e devo ammettere che ha catturato la mia mente in maniera sorprendente. Al netto degli avvenimenti narrati, che riguardano le vite dei concorrenti di oggi, c’e’ stata una fortissima sovrapposizione fra quello che mamma Mediaset ci mostra oggi e quello che e’ mi successo davvero nel 2006. Un grand’effetto di sostituzione della realta’: e’ come se vedessi me stesso li’ dentro, ma dal lato dello spettatore. Una specie di cortocircuito che ti permette di richiamare sensazioni e situazioni vissute tanti anni fa come se accadessero ora. Mi si e’ sbloccato un livello nascosto del mio videogioco mentale, e’ come se avessi scoperto l’accesso alla Stanza dei Ricordi Nascosti. Ci sarebbero tante cose da dire al riguardo, e magari ve le raccontero’ con calma. Oggi pero’ sento l’urgenza di razionalizzare un aspetto particolare di tutto quel che e’ successo, cioe’ com’e’ cambiato il mio rapporto con le persone e con l’umanita’ in generale. Butto giu’ due righe per far uscire quel che ho dentro, e sentirmi meglio, sperando che serva a qualcuno.

Il giorno in cui Sabrina di Endemol mi telefono’ per dirmi che mi avevano preso avevo 24 anni. Mi trovavo in laboratorio, mi preparavo a tirar su gli ultimi dati per finire la mia tesi di laurea specialistica in fisica della materia. Ancora ricordo, “Primo settembre, 11 e 30, Studio 11 di Cologno Monzese. Portati vestiti per un paio di mesi.” Come lo dico al mio relatore? Il programma mi ha costretto a prendermi un anno sabbatico e a rifare daccapo un’intera tesi di laurea, ma cazzo se ne e’ valsa la pena! Non lo dico solo per il fatto di aver vinto, ma perche’ ho vissuto un’esperienza impareggiabile che ha lasciato in me profondi segni all’inizio quasi invisibili e con il passare degli anni sempre piu’ evidenti. Sapete, prima di entrare nella Casa vivevo in un mondo fatto a mia immagine e somiglianza. Frequentavo amici di scuola e universita’, seguivo le mie tante passioni (musica, sport, viaggi, giochi) ed ero superimpegnato. Un ambiente del genere, composto esclusivamente da situazioni in cui vuoi cacciarti, ti forgia in un certo modo: ti permette di avere il tempo di sviluppare alcune tue capacita’, ma al prezzo di far sviluppare solo alcuni lati del tuo carattere. Ti sembra che sia tutto giusto, che tu sia un pezzo di puzzle con la tua forma gia’ fatta e definita, e che il mondo sia li’ ad aspettarti con un buco esattamente della tua misura. Sai qual e’ il tuo posto sul pianeta. Ti circondi di un certo tipo di persone e ti senti appagato.

Il reality in questo ha avuto l’effetto di una bella bomba atomica. O meglio, ti ritrovi in qualcosa definibile a meta’ tra un ottovolante e uno schiacciasassi, che mi ha risputato completamente masticato e pronto per acquisire una nuova forma. Ma andiamo con ordine.

La vista dei primi problemi di comprensione tra pupe e secchioni di quest’anno mi ha fatto ricordare le difficolta’ che avevo pure io nei primi giorni, diciamo fino alla terza settimana. Ero completamente passivo agli eventi e non mi interessava approfondire alcunche’ con la mia pupa, pensavo solo a godermela e basta. Questo perche’ ero in grossa difficolta’ nell’instaurare con lei un minimo rapporto di fiducia. E come potevo? Tralasciando il fatto di dover convivere 24 ore al giorno con qualcuno che ha abitudini molto diverse dalle tue in un posto in cui non puoi fare NULLA di quello che normalmente fai (compreso ascoltare la musica che vuoi), il vero punto dolente era la distanza che percepivo tra me e lei. Come posso – mi chiedevo – fidarmi di una persona che non riesce a stimare correttamente quasi qualunque cosa le si pari davanti? Che non solo sa molto poco delle cose del mondo passate e presenti, ma che vedi fare errori marchiani su qualunque cosa la vita ti ha insegnato essere necessaria per sopravvivere. Io invece, oltre a studiare fisica ed essere brillante negli studi, andavo in discoteca da quando avevo 16 anni, suonavo gia’ da tanto e facevo concerti in giro, giocavo a pallamano in serie B, avevo gia’ avuto le mie storie d’amore, sapevo pure piu’ io di gossip di lei grazie alla mia memoria! Cosa ho da imparare da una cosi’? Pure i rapporti interpersonali che la vedevo instaurare con gli altri concorrenti mi sapevano di superficiale, di gia’ visto, di elementare. Un disastro su tutta la linea. Tutto questo casino in testa mi aveva reso completamente impermeabile, forse anche scorbutico, sicuramente poco socievole e disposto a giocare e ad aiutarla. In tanti spezzoni mandati in onda quest’anno ho rivisto le stesse scene di incomunicabilita’ iniziale che avevo vissuto io e che credo siano state comuni a molti di noi concorrenti secchioni. In questo, va detto, le pupe erano molto piu’ avanti. I miei ricordi sono pieni di scenate delle ragazze che ci gridavano addosso di tutto per svegliarci e per sfogare una frustrazione che anche loro dovevano avere, e principalmente per colpa nostra, mentre noi restavamo fermi immobili come statuine, abituati come eravamo a prendere le cose con distacco e pazienza. Uno stallo dal quale non sapevo uscire, che mi aveva portato ad avere due nomination di fila e dalle quali ci siamo salvati con un misto di abilita’ (come ho detto, nel gossip ero molto forte) e di pieta’ altrui, visto che Daniele Durante ha scelto deliberatamente di non dare l’ultima risposta esatta e di render patta la prima sfida. Non credo di averlo mai ringraziato come si deve, grazie Daniele!

Dopo la terza settimana, un uso abbondante del confessionale e una provvidenziale sveglia mattutina con Stairway To Heaven mandata a palla dall’interfono (grazie Autori!) mi sono gradualmente ritrovato fuori dalle nebbie. E’ stata una commistione di volonta’ di ingoiare il boccone amaro e di una serie di avvenimenti. Innanzitutto era successo che le dinamiche interne tra le ragazze – molto piu’ forti e volubili di quelle tra noi ragazzi – si erano cristallizzate in un’avversione generale verso la mia pupa, Rosy. Allo stesso tempo sono accadute cose di rilievo, come l’ammutinamento per un giorno di noi secchioni, la scena del carwash col rifiuto di due ragazze di prestarsi, una sera con griglia e vino a fiumi sfociata in pianti per alcuni, la rinuncia di Durante e l’arrivo di nuovi concorrenti. Tutte queste cose hanno progressivamente distolto la mia attenzione morbosa da me stesso e dalla mia condizione, e mi hanno fatto vedere la situazione per quello che davvero era. Gradualmente, cominciavo a vedere cose prima invisibili e a valutare le persone solo per come si comportano. Tra tutte, finalmente cominciavo a rivalutare Rosy, una persona che ha un sacco di limiti ma che e’ capace di gesti non necessari ma gentili, come il salvarmi un po’ di cibo perche’ ero fuori con la troupe a fare una prova durante l’ora di pranzo. Non necessario perche’ avevamo cibo potenzialmente illimitato, gentile perche’ ero l’unico ad aver avuto questo trattamento in quel frangente. Una persona che resisteva stoicamente a tutti gli attacchi degli altri che la prendevano in giro per il suo modo di essere. E allora mi son detto chissenefrega. Chissenefrega se Rosy vede come una conquista cose che per me sono elementari, se continua ad avere abitudini discutibili e ad essere ai miei occhi sostanzialmente inaffidabile per un sacco di cose. Quello che conta alla fine e’ la bonta’ di una persona e l’atteggiamento che ha in quello che deve fare. Una lezione che mi son portato dietro negli anni e che mi ha permesso di scoprire nuove cose di me stesso, al punto da dedicare al tema un post di questo blog scritto in tempi non sospetti e in circostanze del tutto diverse.

Dopo quegli avvenimenti siamo stati la coppia che piu’ ha lavorato per cercare di migliorarsi, di interagire, di creare qualcosa. Siamo cresciuti esponenzialmente nella nostra reciproca confidenza, cosi’ tanto che – e questo non lo sa praticamente nessuno a parte noi e gli autori, visto che e’ accaduto lontano dalle telecamere – a due giorni dal finale del reality ho innestato un gigantesco freno a mano nel nostro rapporto, dicendole frasi pesanti e meritandomi un discreto lancio di oggetti da parte sua. Il nostro rapporto stava diventando addirittura troppo preponderante ed importante, piu’ grande del gioco stesso. Incredibile, no? D’altra parte e’ uno strano mondo quello del reality show a reclusione: quando stai 24 ore su 24 chiuso in casa con un gruppo di persone tutto diventa enorme. Se qualcuno ti sta solo un po’ sulle palle te lo ritrovi davanti ogni mezz’ora e finisci per odiarlo ferocemente. Se qualcuno invece ti diverte – magari il componente di un’altra coppia, com’e’ ad esempio capitato dopo il primo mese a molti di noi maschi con Elisa Della Valentina – sperimenti una sorta di assuefazione al punto da farti dimenticare che devi giocare in coppia con il partner assegnato. Pericolosissimo. Per carita’, poi esci e ritorna tutto al proprio posto. Forse.

Alla fine di tutto, una volta fatto calare il sipario su un periodo straordinario, l’eredita’ piu’ grande che mi resta, piu’ grande della fama durata qualche mese, del montepremi vinto e di tante altre cose, e’ stata dunque la mia evoluzione caratteriale. Mi sono riscoperto piu’ serafico e zen, e allo stesso tempo molto piu’ malizioso. L’aver dovuto interfacciarmi con una persona cosi’ distante da quello che ero ha gradualmente cancellato gran parte delle mie sovrastrutture mentali che usavo per categorizzare e valutare le persone. Ora sono molto piu’ rilassato perche’ sono conscio dei confini entro i quali e’ lecito dare giudizi. Il mondo e’ grande, e ha le spalle larghe abbastanza per ospitare e dare dignita’ a milioni di modi di vivere. Ora mi sento di percepire le persone in base al comportamento che hanno verso il prossimo e verso il nuovo. D’altra parte, ora sono molto piu’ capace di comunicare cosa non va, sia nel mio rapporto con gli altri che nel rapporto tra altri. Ho imparato a conoscere i bisogni altrui di chiarezza, a saper leggere le persone, a saper bisticciare e ad individuare in molto meno tempo il meglio e il peggio di me stesso e degli altri, qualcosa che onestamente prima del reality ero capace di fare molto poco. Fortunatamente questa evoluzione si e’ ben integrata con i miei gusti innati. Il reality non ha cambiato i miei obiettivi personali. Ho continuato a fare quello che sapevo fare e molto probabilmente la mia carriera lavorativa e musicale sarebbe stata la stessa anche se non fossi andato su Italia 1. Eppure, e’ cambiato il modo in cui ci sono arrivato, e sono contento sia andata cosi’. Ecco, magari e’ stato un modo un po’ avventuroso di maturare, e la visione della nuova stagione me l’ha ricordato nel piu’ strano e curioso dei modi.

P.S. chissa’ come andra’ a finire questa nuova stagione! Io tifo per Massa e Marina.

La somma delle storie

Prodromo:
Spesso mi ritrovo ad essere completamente insofferente verso le persone che distorcono concetti fisici difficili da capire per dare un che di esotico ai loro parti mentali. Campione indiscusso in questo senso e’ il povero bistrattato entanglement, citato a sporposito da chi vuole ammantare di fondatezza e comunione con la natura concetti come la telepatia o l’intelligenza collettiva degli esseri viventi. La lista e’ ben lunga: purtroppo la lezione piu’ dura da imparare per chi ha veramente capito questi concetti e’ il limite della loro applicabilita’ dettato dalle ipotesi e dalle condizioni al contorno. A tal proposito, mi e’ venuto in mente un modo carino di presentare i miei pensieri di stasera: prendero’ due concetti esotici e dal grande contenuto romantico e li portero’ lontano dal loro range di applicabilita’ e fondatezza per metterli in contrapposizione, per il gusto di dimostrare per l’ennesima volta che tutto e’ possibile se non si sa di cosa si sta parlando. Oggi e’ il turno della teoria dei multiversi e della somma delle storie di Feynman. Abbiate il coraggio di seguirmi.

Sono piuttosto bravo nel cercare di tenere i contatti con persone un tempo vicine e che la vita sta portando su strade che pian piano divergono dalla mia. Periodicamente cerco di organizzare un aperitivo, una cena, anche solo una chiacchierata in chat, sufficiente per avere le news piu’ fresche e, piu’ essenzialmente, perche’ stavo bene quando trascorrevamo piu’ tempo insieme. Ultimamente pero’ mi capita qualcosa di particolare in testa quando ascolto le solite, ma mai uguali storie che ci si racconta in questi casi. Sostanzialmente, mi rendo conto che assomigliano sempre di piu’ a delle conclusioni, a dei punti fermi nella vita. Sono storie e vite di cui cominci a intuire la fine, quantomeno a grandi linee. C’e’ quello che e’ stato assunto a tempo indeterminato li’. Oh guarda, sai che Tizio si e’ sposato e ha messo su famiglia (magari a 10000 km da casa)? Senti di quell’altro, ha una tale tavolozza di abitudini da restarci impigliato. Allora riavvolgi il nastro, e ti dici: ma come si e’ arrivati a questo? E, in modo piu’ inquietante, ma come mai non e’ successo altro?

Cosi’, mentre le tue orecchie catturano le parole altrui e i tuoi occhi indugiano sul bicchiere vuoto, parti per la tangente. In fondo mi ricordo questa o quella persona fatta in un certo modo. Si stava bene quando si giocava, si era in classe, si usciva con gli amici. Perche’ ci si distacca, e invece magari non e’ successo qualcosa di diverso. Perche’ non siamo diventati amici per la vita, o compagni e compagne di cento altre cose, o non si sono sviluppati certi sentimenti, congelati come embrioni. Pensare alle occasioni perse non fa mai bene, quindi ho rovesciato il paradigma: non sono occasioni, sono solo percorsi. E avanti ancora coi pensieri.

C’e’ una teoria fisica, quella del multiverso, che suppone l’esistenza di un numero sconfinato di universi paralleli al nostro, figlia di quell’Interpretazione a molti mondi di quasi sessant’anni fa. Essa e’ legata al problema della misura, e dice che ogni misura di uno stato prima indeterminato divide la realta’ in vari percorsi indipendenti, in ognuno dei quali e’ avvenuto un risultato diverso della misura. E’ un po’ come quando in Ritorno al Futuro II il vecchio Biff torna indietro nel tempo e crea una nuova linea temporale dando l’almanacco al giovane Biff. Puff! Il passato che ricordi non c’e’ piu’, sono accadute altre cose. E chissa’ cosa sarebbe accaduto tra me e i miei amici, se avessimo deciso diversamente nel passato. La teoria ti da’ una speranza, dopo tutto. Magari e’ tutto vero, magari in giro, chissa’ dove! c’e’ la storia di te che hai compiuto mille altre scelte, infiniti cloni che percorrono tutti assieme contemporaneamente gli infiniti bivi della vita. Ci pensi perche’ sei curioso di sapere come sarebbe andata a finire, sicuramente in modo sostanzialmente diverso da quanto intuisci che sta accadendo qui, in questo singolo universo.

Tornando a casa, poi – l’effetto dell’alcol sui trentenni, gia’ esemplificato qui, a parer mio dovrebbe essere studiato meglio – ho pensato che il punto di partenza, il motore di tutto questo, e’ sbagliato. Io, come molti altri credo, non mi pento affatto delle scelte che ho fatto. Mi piacciono le tante cose che faccio, le persone che amo, la famiglia che ho e il futuro che mi si prospetta. E’ come se la configurazione ottima si fosse creata al netto, quasi come risultato finale di tutti quei bivi. D’un tratto tutto mi suona come gia’ pensato: e’ la somma delle storie di Feynman! Tutte quelle possibili descrizioni del tuo io sono collassate secondo un principio di minima azione. L’integrale di tutte queste sul tuo cammino ti ha portato ad essere quello che sei, inevitabilmente. La cosa bella poi e’ che non c’e’ destino o disegno intelligente, come qualcuno potrebbe credere: e’ il numero di sottogruppi di cammini che si assomigliano a generare punti stazionari e in sostanza a farteli percorrere. Questo pensiero, questa consapevolezza, mi ha fatto sorridere. Essere trentenni e’ utile perche’ e’ il primo periodo della tua vita in cui puoi vedere i punti stazionari della tua vita e di quella degli altri. Ti nasce anche una gratitudine speciale verso tutte quelle persone che ricordi e che incontri di rado, ma periodicamente. In fondo, ognuno e’ nel posto in cui e’ oggi per le scelte che anche gli altri hanno fatto e che hanno condizionato inesorabilmente la probabilita’ che certi cammini si avverino.

Sull’inadeguatezza

E’ interessante come a volte i libri che si leggono si adattino cosi’ bene ad un preciso momento della tua vita. Questa volta e’ capitato ad un libro per certi versi sorprendente, uno di quelli di cui a grandi linee sai gia’ la trama, ma che si fa amare per i dettagli. Il seguente citato e’ tratto da “Atomi in famiglia”, la biografia di Enrico Fermi scritta dalla moglie Laura quando lui era ancora in vita. Parla dell’inadeguatezza nei rapporti di coppia, e oggi e’ proprio li’ che voglio andare a parare. Avviso: il post sara’ bello lungo.

[…] Questo suo primo sproposito clamoroso avrebbe dovuto convincermi che l’infallibilita’ non e’ di questa terra. Ma Enrico esprimeva sempre opinioni cosi’ sensate, si atteneva a giudizi cosi’ razionali che lo ritenevo capace di esser mai dalla parte del torto. I fatti mi davano in genere ragione: Enrico aveva una straordinaria capacita’ di pensare prima di parlare, di pesar le parole, di non dire cose di cui non fosse piu’ che sicuro.
Di fronte a tanto equilibrio mentale, si sviluppo’ gradualmente in me un’esagerata consapevolezza della mia ignoranza, una ferma convinzione che le mie opinioni non avessero valore alcuno. Questo senso di inferiorita’ veniva ribadito una domenica dopo l’altra, quando andavamo a passeggiare con gli amici. Emilio Segre’, nato e cresciuto a Roma, aveva altri conoscenti e raramente si aggregava a noi. Ma Rasetti e Amaldi erano sempre disposti a fare una camminata. Quando Fermi e Rasetti insieme si trovavano in compagnia di ragazze, le tormentavano con l'”esame di cultura generale”. Cornelia se la cavava con una risata, come se le domande non fossero indirizzate a lei. Maria Fermi, giovane seria e tranquilla, dotata di una profonda cultura letteraria, rivolgeva agli esaminatori un sorriso vago e tollerante. Gina Castelnuovo, Ginestra e Io eravamo invece le vittime predestinate.
[…]
Fermi mostrava un’indubbia abilita’ a orientarsi e a risolvere problemi posti da lui stesso o da altri. Rasetti aveva una riserva illimitata di nozioni assortite: le regole monastiche dei Lama del Tibet; l’orario dei treni di tutta Europa; i nomi latini di tutte le piante e di tutti gli insetti che trovavamo per via; i cambi di tutte le monete straniere. Onniscienza e infallibilita’! I due ci facevano diventar matte.
[…]
Del complesso di inferiorita’ acquistato in cosi’ colta compagnia guarii improvvisamente pochi anni dopo. Un’estate, mentre Enrico era in viaggio in America, passai qualche giorno sulle Alpi, a Gressoney, con mia sorella Paola, col marito Piero Franchetti, e con un gruppo di loro amici. […] Con mia grande sorpresa mi accorsi che con tutta questa gente parlavo da pari a pari, e, soprattutto, che essi mi facevano domande e ascoltavano le mie risposte con apparente attenzione. Nessuno ridacchiava o si faceva burla di me quando aprivo bocca.
Qualche anno dopo completai la mia rivolta contro i tiranni dell’intelletto e venni alla conclusione che la sicurezza di se’ non e’ necessariamente indizio di sapere. Era il 1940, e ci eravamo stabiliti negli Stati Uniti. Rasetti venne a trovarci, e insieme andammo a Washington in automobile per un congresso di fisica. A circa meta’ strada fra New York e Washington, Enrico, che coglieva tutte le occasioni per sfoggiare davanti a me la sua piu’ profonda conoscenza dell’America, mi disse:
– Stiamo attraversando la linea Mason-Dixon.
– E che e’ questa linea? – chiesi.
– Pazzesco, non sa nemmeno che… – comincio’ Rasetti.
– La linea Mason-Dixon e’ quella che divide il Nord dal Sud degli Stati Uniti – mi spiego’ Enrico.
– Ma che sorta di linea e’? Immaginaria? una linea fatta da chi o da che cosa?
– E fatta da due fiumi, il Mason e il Dixon – rispose con gran sicurezza Rasetti.
– Macche’ fiumi! Ti sbagli della grossa! Mason e Dixon erano due senatori americani, uno del Nord e uno del Sud.
Scommisero un dollaro. Charles Mason e Jeremiah Dixon erano due astronomi inglesi. Ma Fermi volle il dollaro “perche’ gli astronomi inglesi potrebbero anche diventare senatori negli Stati Uniti, mentre due fiumi… mai”.
E cosi’ fini’ il mito dell’onniscienza di Rasetti e dell’infallibilita’ di Fermi.

Ecco il tema: la nascita e l’evoluzione dell’amore in due persone cosi’ diverse. Il libro e’ un meraviglioso esempio di due persone che hanno condiviso una vita insieme. Laura Fermi, piu’ giovane di suo marito di sei anni e all’epoca del secondo e decisivo incontro studentessa diciannovenne di scienze naturali quando Fermi gia’ insegnava all’universita’ (a 25 anni!), ha davvero vissuto quel complesso d’inferiorita’ che ti fa dire “ma io che c’entro con uno cosi’? come posso piacergli? cosa ci trova uno come lui in una come me?” Una situazione davvero difficile, contando anche il fatto che – secondo quanto lei stessa riferisce – Enrico Fermi sapeva veramente e naturalmente essere una pigna in culo. Per dire, la prima scena della biografia si conclude con la seguente, perentoria frase: “Fu il primo pomeriggio che passai con Enrico Fermi, e l’unica volta in cui riuscii meglio di lui”. Eppure improvvisamente questo senso di inadeguatezza sparisce quando si rende conto che non e’ infallibile, che e’ umano come tutti e reagisce agli sbagli come tutti. E paradossalmente lei se ne innamora ancor di piu’, dimostrando in seguito di saper fare un sacco di cose e di non essere da meno, a modo suo. Scrivera’ un libro divulgativo di fisica assieme a Ginestra Amaldi, “Alchimia del tempo nostro”, spronata dallo stesso marito. Sara’ perfetta compagna alla cerimonia del Nobel nel 1938, e racconta di come danzo’ col principe Gustavo Adolfo. Sapra’ farsi valere come moglie e come madre quando abbandonarono l’Italia per gli Stati Uniti a causa delle leggi razziali, soprattutto nel periodo in cui Fermi era implicato nel Progetto Manhattan e si dovettero spostare prima a Chicago e poi al Sito Y. Insomma, anche se non detto alla fine si capisce perche’ Enrico Fermi l’ha presa in moglie. Ciononostante non conosciamo davvero la sua versione, o meglio, i pensieri che scorrono nella mente di colui che e’ dall’altra parte. Non se ne parla mai, eppure e’ un problema simmetrico. Quindi e’ ora di fare coming out, lasciando da parte le ipocrisie.

Lungi da me paragonarmi come modi e abilita’ a Enrico Fermi, ma io mi trovo sempre dall’altra parte, la sua parte. E quando dico sempre, intendo proprio da quando ho memoria. Ho imparato da solo a leggere, a scrivere e a far di conto a due anni e mezzo, e da quel momento in poi sono stato bombardato da frasi tipo “ma quanto sei intelligente” o “sei davvero piu’ bravo degli altri”. Tutta la vita cosi’, con l’ovvio riflesso che per trent’anni ho dovuto avere a che fare con persone che non perdevano occasione di sminuirsi nei miei confronti, di mostrare soggezione. Succedeva quando ero bambino, quando non mi impegnavo mai e sapevo poesie a memoria, o studiavo monomi e polinomi da solo mentre gli altri erano fermi alle parentesi graffe. Succedeva da adolescente, quando ho imparato cosa mi interessava davvero, dall’astronomia cominciata a 10 anni alla musica, e fanculo il resto. Succedeva da 20enne, quando per l’esame piu’ duro che ricordi a fisica ho studiato per “ben” 9 giorni, e passavo il resto del tempo a fare mille altre cose. E succede pure adesso. Intendiamoci, io so di essere bravo – o quantomeno sopra la media – in quasi qualunque cosa io faccia, e non su scala rionale, ma su scala continentale. Anche nei miei anni all’estero, stessa identica cosa, non voglio mica nascondermi dietro un dito. E non sarebbe nemmeno onesto sminuire la cosa per sembrare umile. Pero’ quella in cui vivo io e’ una psicologia di cui non si parla mai. Nessuno sa cosa significa essere preso d’esempio continuamente e per tutta la vita, anche nei momenti in cui non vorresti proprio, e anzi vorresti scomparire dietro il bavero della giacca e dire sottovoce che in fondo le sensazioni che provi non possono essere troppo diverse da quelle degli altri, e che anzi sotto sotto i bisogni che hai non sono cosi’ distanti da quelli che vicino a te si sentono in un modo o nell’altro inadeguati. Allora, stretto tra la lettura di questo libro e una vicenda personale e dolorosa che non vi raccontero’, vi svelero’ un piccolo tassello del mosaico, vi diro’ come la vedo io quando sento di essere attratto da una persona che a prima vista non puo’ pareggiarmi.

Il fulcro di tutto non e’ il risultato, ma l’atteggiamento. A me non interessa confrontarmi sulla scala assoluta, e non perche’ nel 98% dei casi a conti fatti vinco io. Quelli dall’altra parte della barricata, quelli per cui la domanda “ma io che c’entro con uno cosi’?” e’ rivolta sapendo che, se tra i due c’e’ una certa distanza, sei tu quello davanti, ecco quelli aspettano solo qualcuno che non abbia paura di trascinare e farsi trascinare altrove. Davvero, non importa a colui che sa fare se l’altro non sa fare. Quello che conta e’ capire se l’altro imparera’ a fare, e si liberera’ dei suoi blocchi anche grazie alla tua vicinanza. Poco importa se, come nel caso di Fermi, uno scopre le reazioni nucleari tramite neutroni lenti e l’altra scrive solo un libretto divulgativo. Poco importa se uno e’ gia’ esperto in tante cose e l’altro e’ alle prime armi. Chissenefrega se a uno riesce le cose in tempo zero e ha una forma mentis calma ed efficace, e l’altro ha bisogno di eoni e scleri per ricavare o anche solo pensare a qualcosa di dignitoso e ordinato. Perche’ alla fine chi come me sta spesso davanti non aspetta altro che concentrarsi su qualcuno, e dimenticarsi del fatto che la societa’, gli amici, i conoscenti, tutto il mondo fuori guarda te come esempio da seguire, come modello e come ispirazione, pur non capendo una mazza delle sensazioni che ci stanno dietro. Il mondo e’ davvero sintonizzato in modo da far sembrare normale colui che sta dietro a prescindere, e cosi’ ti capita di dover combattere una battaglia extra se stai davanti. Per una volta, si vorrebbe davvero barattare il ruolo d’esempio per poter vuotare il sacco liberamente, per poter crescere assieme al partner nell’unico aspetto che senti mancare dentro di te, il confronto al netto dell’ipocrisia, e scoprire alla fine di essere uniti non dai risultati raggiunti e dal loro equiparamento, ma dallo sforzo fatto insieme e dalla gioia del successo altrui. Una sorta di dimensione extra, unico luogo della vera unione tra due persone e nella quale le distanze stabilite dalla vita nelle dimensioni ortogonali non hanno poi cosi’ importanza. A un giocatore forte non interessa avere vicino qualcuno che sappia giocare forte quanto lui, ma che voglia imparare le regole, che si interessi di quando l’altro gioca forte e che abbia voglia di provare giochi nuovi, insieme. E ci son sempre giochi nuovi da provare.

Alle volte mi chiedo come mai questo sia cosi’ difficile da capire per chi si sente inadeguato verso il basso. Forse che questi pensieri, che davvero non riesco a credere non si materializzino nelle menti degli altri, vengono sormontati dalla differenza che c’e’ tra due persone? Sara’ la fatica che tutto cio’ comporta? Sara’ la paura? In fondo l’atteggiamento di cui parlo e’ anche e soprattutto un atteggiamento di coraggio. Ci vuole forza e sicurezza per non farsi prendere dal sentimento di inadeguatezza. E spesse volte accade che quelle poche persone di cui io intuisco la forza non ne siano veramente consce. E’ una cosa che mi manda in bestia e allo stesso tempo mi fa sciogliere, come cogliere un fiore non cresciuto abbastanza. Alla fine, il coraggio che serve per sconfiggere la sensazione di inadeguatezza e’ duplice: bisogna essere audaci nel non curarsi della distanza, ma cercare la dimensione ortogonale pur sapendo delle vertigini, e bisogna avere il coraggio di guardare dentro se’ stessi e capire di avere abbastanza forza dentro. Laura Fermi era una donna forte, e sono sicuro che suo marito sapesse il perche’ il loro amore ha saputo sconfiggere l’inadeguatezza al prim’ordine che c’era tra loro.

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Il gregario, ovvero sull’essere soli stando in compagnia, e sentirsi tutto sommato felici

Questo weekend sono andato a vedere un concerto di una cantante che conosco e che mi piace. Ultimamente cerco di vedere piu’ concerti possibile, se non altro per riacquistare la sensibilita’ musicale che avevo un tempo e che ora mi serve come l’aria. Dopo il concerto, tra una chiacchiera e l’altra, lei mi confessa che le piacerebbe fare cover di un sacco di cantanti famose, di cui pure io apprezzo molto la musica. WOW, penso, sarebbe davvero bello suonare la musica che piu’ ci comunica qualcosa, e condividerla con altri. Anche a me, da bassista, piacerebbe. Su questo pensiero mi si adagia la mente per tutto il weekend, fino a oggi. Il lunedi’ e’ tipicamente il giorno in cui le cose pensate nel weekend prendono una botta forte, di lato, e spesso si incrinano. Ma perche’ io, da bassista, dovrei essere contento di fare canzoni nelle quali e’ la voce a trasmettere le maggiori sensazioni? Altra partenza per la tangente! Maledette tangenti, non sai mai se partono verso l’esterno, pindaricamente, o verso l’interno, per colpire il nervo nascosto. Comunque, ecco quello che ne ho ricavato.

Io sono un gregario, e sono tutto sommato felice di esserlo. Ogni volta che penso a questa cosa un pezzo dopo l’altro della mia vita ne viene inquadrato, avvolto. Va tutto al suo posto, con questa definizione. La musica, ad esempio. Alla fine ogni strumento e’ un vestito che ci si sceglie di mettere addosso, piu’ o meno consapevolmente, e la vetrina nella quale si vede il capo e’ la musica che si ascolta. Ogni strumento si adatta meglio al modo di comunicare, e non sorprende il fatto che praticamente tutta la musica piu’ coinvolgente verte soprattutto su cantanti, tastieristi e chitarristi d’eccezione. C’e’ poco da dire, il pubblico le fruisce meglio. Cosi’ chi intraprende questi strumenti ha una maggiore possibilita’ di comunicare le sensazioni di un misero bassista. Tutti farebbero la fila e sarebbero lieti di pagare un biglietto per avere in cambio una linea vocale eseguita bene o un assolo emotivamente coinvolgente. Io invece non avro’ mai questa fortuna. Non solo perche’ personalmente le canzoni con solo assoli ipercomplicati di basso mi fanno cagare, ma anche e soprattutto perche’ le canzoni in cui tu, bassista, puoi dire qualcosa, o colpiscono poco al cuore il pubblico, o sono in realta’ dominate dagli altri strumenti. E allora che motivazione c’e’ ad essere bassisti, a cacciarsi in un frame in cui tu non sei e sarai mai al centro dello schema?

Un altro esempio e’ lo sport. Ormai da sempre gioco in porta, a pallamano da agonista e a calcio da amatoriale. Quello del portiere e’ un ruolo monco. Non puoi far vincere la tua squadra, il tuo scopo e’ solo quello di non farla perdere. Uno scontro in cui i portieri giocano partite eccezionali finisce zero a zero, e alla fine del campionato i Palloni d’Oro sono sempre vinti dall’attaccante. Nessuno giochera’ per farti fare piu’ parate, ma dovrai sempre essere tu bravo a sventare le azioni altrui e lanciare l’attaccante nella porta avversaria. Ancora l’indole del gregario. E dopo aver pensato questo, ecco che mi si rincorrono nella mente mille altri aneddoti. Mi piace fare da master nei giochi di ruolo e di comitato. Mi offro volontario per lavare i piatti il giorno dopo capodanno. Mi sta bene restare tutta la notte in laboratorio a pulire il campione. Potrei andare avanti parecchio, e – cosa importante – in nessuno di questi casi mi sono mai pentito della scelta. Il perche’ e’ presto detto.

Il punto e’ che un gregario gode nell’essere tale, perche’ la felicita’ del leader e’ troppo plateale per soddisfarlo. Io sono felice quando suono pezzi nei quali gli altri strumenti risaltano, c’e’ poco da fare. Ma non per altruismo, per paura della leadership o perche’ mi crogiolo con pensieri tipo “senza di me questo non sarebbe stato possibile”. E’ piu’ una questione di accorgersi del nascosto. Il gregario sta attento ai dettagli che gli altri non colgono, e’ quello il suo lavoro, e piu’ c’e’ in giro gente che non coglie, meglio e’. Tante volte dopo i concerti la gente mi ha fatto i complimenti per come suono, e dentro di me ho sempre pensato che in realta’ anche coloro che si congratulano abbiano capito meno della meta’ del lavoro che ho fatto. Tante volte mi dicono che ho giocato bene, e dentro di me penso che mi ricordano solo per l’episodio difficile, e non per le parate facili o per il rilancio fatto bene. E’ il lavoro in se’ che e’ gratificante, ben piu’ del riconoscimento sociale successivo. Trovo che sia una gioia molto piu’ personale, intima, e di pari dignita’. Un qualcosa che resiste alla fama del momento, al successo del singolo evento, che non dipende dall’umore altrui. Ti spinge il piacere del nascosto, del fare il lavoro di fino quando tutti lo interpretano come grossolano, ma efficace. E’ come mantenere un segreto, ed agire in coerenza con esso senza farti scoprire. Perche’ in fondo non menti, quando dici agli altri che ti piacerebbe suonare canzoni di cantanti famose. Puoi tornare a casa soddisfatto, per un motivo in piu’ che gli altri non potranno mai conoscere.

Mimetismi pt. 2

Hint: Se non hai letto la prima parte, comincia da li’.

Rileggendo il post precedente mi sono accorto di aver tralasciato, o quantomeno solo accennato, un aspetto importante dell’interazione tra persone. A dir la verita’ l’ho fatto quasi apposta, perche’ credo sia un argomento che meriti un post a se’. Si parlava dell’interpretazione di un ruolo quando si interagisce con un’altra persona, e di come questo sterilizzi e sovrascriva le tue vere opinioni – e di conseguenza le tue relazioni interpersonali. Trovo che questo accada particolarmente nei discorsi concernenti temi non strettamente personali, ma che comunque richiedono un impegno mentale relativamente elevato. Mi riferisco a discorsi di politica, religione, opinioni su questo o quell’avvenimento socialmente importante. Piu’ sento parlare la gente e piu’ mi convinco che, mano a mano che si va avanti nei discorsi, a un certo punto le persone vadano avanti per partito preso, come se ci si immedesimasse a tal punto nel ruolo preso nel discorso da esserne sopraffatti.

A me questo capita spesso. Ricordo distintamente tante volte in cui il discorso mi ha portato verso la difesa di posizioni che non ricalcavano completamente il mio sentire. A un certo punto entra il pilota automatico, che ha come primo obiettivo quello di essere coerente con quello detto in precedenza. E il pilota va, quasi fosse un esercizio di retorica sofistica, e ti porta consapevolmente alla deriva, verso nuove opinioni e posizioni inaspettate. Mi e’ capitato di vedere me stesso deviare verso punti di vista davvero distanti da quelli normali, immediati ed autentici, e di saperli difendere con soddisfazione. Piu’ sorprendentemente, dopo poco tempo accade che mi rendo conto coscientemente di aver creato un’immagine di me stesso, e di non avere alcuna reazione di stizza al riguardo. Anzi, ci godo quasi nella sensazione di vedere me stesso comportarsi come qualcun altro.

Come credo di aver descritto abbastanza bene nel post precedente, la motivazione di tale comportamento e’ molteplice: sapersi mimetizzare, oltre ad essere piacevole, ti aiuta a stare meglio da solo. In questo caso particolare pero’ c’e’ di piu’. I discorsi spesso sono lunghi abbastanza da permetterti di studiare metodicamente te stesso dal di fuori. Come guardando all’interno di un acquario, cosi’ io riesco a scoprire aspetti del mio interagire con gli altri che altrimenti non avrei mai notato. Una volta che il pilota automatico e’ inserito, posso scoprire quanto possa essere cinico e bastardo nel negare alcuni concetti che so essere intimamente giusti, quali sono gli aspetti e i particolari concetti che piu’ colpiscono me e gli altri in un discorso, a cosa si da’ piu’ o meno attenzione. Guardare un simulacro di te stesso in un contesto che non e’ il tuo, a difendere posizioni che non sono le tue, aiuta a capire quanto davvero le opinioni che credi siano le tue lo sono poi davvero. Lo si misura dal disagio che provi quando sai che quello che esce dalla tua bocca o dalle tue dita fa a pugni con l’immagine di te stesso che credi sia quella sincera. E tante volte scopri che questo disagio e’ minore di quanto ti saresti aspettato…

Pensandoci bene, questa esperienza ti aiuta ad investigare i contorni nebulosi dell’immagine che hai di te stesso. Per uno come me, che ha disagio nell’osservare le cose incerte e non farci niente, e’ una tentazione necessaria, al punto da riuscire a tollerare i lati negativi. Le informazioni raccolte sono talvolta preziose abbastanza dal giustificare questa violenza – perche’ di violenza si tratta – verso l’interlocutore, che magari si aspetta di parlare con una persona sincera al 100%. Ma alla fine poco importa, perche’ una persona che non sa se le sue opinioni sono davvero sue, nel senso di intimamente legate alla propria essenza, non potra’ mai essere sincera davvero. L’egoismo e’ un prezzo che merita pagare per conoscere meglio se’ stessi.

Mimetismi

Qualche giorno fa un’amica mi ha fatto una domanda alla quale non credo di aver risposto con onesta’. Eravamo in macchina e si parlava di quando si va fuori insieme, con altra gente, quando a un certo punto mi fa: “ma tu ti accorgi delle ragazze che sentono un po’ di attrazione verso di te? No, perche’ io me ne accorgo da diverso tempo, vedo come ti guardano e ti parlano, e tu non fai mai niente.” Pur sapendo perfettamente di cosa parlasse, ho preferito glissare con un “anche se fosse – cosa del quale a volte dubito – non sono interessato io per primo, quindi amen”, magari cercando pure di darmi l’aria di quello che la sa lunga e che ottiene cio’ che vuole. Mettiamo le mani avanti: questo non sara’ un post strappalacrime in cui mi dichiarero’ segretamente scontento della situazione e blablabla. Ho invece intenzione di essere un po’ spietato. Perche’ poi, quando ci siamo lasciati, ho cominciato a pensare quanto io sia bravo a mimetizzarmi nelle situazioni che non sono le mie, di come cio’ sia sterilizzante nei rapporti interpersonali e di come questo sia cio’ che voglio.

Quel discorso ha evidenziato una consapevolezza dentro di me, io so come dovrei comportarmi per raggiungere questo o quell’obiettivo. L’ho capito guardando gli altri, ed analizzando sistematicamente gli avvenimenti altrui. Cosi’ mi ritrovo a utilizzare spesso questa conoscenza e il sapere immedesimarmi per parlare con cognizione di causa di situazioni in cui francamente mi sono trovato solo marginalmente, e per non sentirmi come un pesce fuor d’acqua negli ambienti piu’ diversi. Ho imparato a fare di tutto, andare nelle discoteche piu’ in, come comportarmi nei raduni dei bikers o in megaconcerti metal, quali conversazioni tenere con ricconi che ti invitano su uno yacht da 90 piedi o ad una festa in un edificio occupato da squatters. Mi sembra di riuscire a percepire il ruolo che mi viene richiesto di coprire dall’interlocutore e dall’ambiente, e di poterlo fare. Mi capita di andare a delle serate di giochi, e di saper tenere una conversazione su un gioco specifico o su esperienze legate all’ambiente al punto da non sembrare l’ultimo arrivato. O di poter parlare di cosa si fa la sera qui o li’, e di far credere all’interlocutore che di esperienza ne ho avuto abbastanza da farmi identificare non solo come degno di ascolto, ma come uno che autonomamente ricerca esperienze simili, uno spirito affine. Quando ascolto confidenze amorose, capisco subito se la persona che mi sta davanti ha bisogno di qualcuno che ripeta le sue ragioni per fortificarle (davvero l’ABC del comportamento amicale, questo) e quando c’e’ invece bisogno del parere spiazzante, di parole contro. Un mix di esperienze altrui, buone doti di improvvisazione e di osservazione, e un pizzico di incoscienza. Tanto basta per difenderti degnamente in ogni situazione.

Alle volte ho l’impressione che assumere un ruolo od un altro sia per me quasi un lavoro. Non riesco a farne a meno. Il brutto e’ che questa attitudine va ben oltre. Quando mi chiedono opinioni su come io affronto le cose, o come gestisco le mie relazioni personali piu’ intime, l’istinto di mimetizzarmi prende il sopravvento, e dico cose non vere su di me per il piacere di non mostrarmi, senza curarmi del fatto che magari potrei essere sgamato nel farlo. Parto in automatico. E poi guardandomi indietro scopro di aver spesso mentito alla domanda “ma ti piace davvero questa cosa?” e mi sono pure chiare le ragioni per cui l’ho fatto e continuo a farlo. E’ sicuramente il piacere di sapersi adattare, una sfida continua che si gioca sui piu’ disparati campi. Sapersi trasformare, passare per quello che non si e’ se non in minima parte, e pensare ancora una volta di avercela fatta. Essere spietati polimorfi e’ una croce e una delizia. Ma dietro c’e’ pure dell’altro. In generale non ho mai sentito il bisogno di mostrarmi agli altri per quello che sono, perche’ ormai ho sostituito agli altri quello stesso simulacro di me stesso che mostro ogni volta che parlo con loro. A forza di interpretare questo o quel ruolo, riesco a capire, a prevedere, a simulare cosa una persona amica mi direbbe se le confidassi i miei veri pensieri. La persona artificiale che tu diventi quando gli altri parlano prende vita anche quando tu parli con te stesso, e ti aiuta nello sbrogliare le matasse di pensieri. E’ questo il livello piu’ elevato dell’essere soli, e dello star bene da soli? Avere la sensazione che gli altri non abbiano nulla da dire di piu’ di quanto tu possa immaginare da solo, essere schiavi della propria esperienza ed attitudine a tal punto da trovare il resto, quello che gli altri ti possono dare, insipido e scialbo.

Tutto questo getta ombre davvero scure sulle mie opinioni condivise con altri, e paradossalmente anche su quelle degli altri che mi sono state confidate. Cosa accadrebbe se, chi piu’ e chi meno, ogni persona sia capace ad un certo punto di assumere un ruolo, e di difendere un’opinione solo perche’ tale ruolo impone di farlo e perche’ si gode nel farlo? In fondo, un mondo in cui tutti siamo molto meno sinceri di quanto diciamo di esserlo, o molto piu’ attori di quanto siamo pronti a confessare, non e’ un brutto mondo. A parte la simmetria che rende il tutto piu’ giusto ed etico, questo pensiero fa capire come agli uomini potrebbe non interessare davvero la verita’ e la trasparenza al 100%. Spesso ci si accontenta di star bene solo grazie alla forma delle cose. Poco importa se i pensieri che ci fanno godere dell’essere vivi sono generati dall’interazione con simulacri invece che da persone sincere. Davvero importa che la risposta data alla mia amica non sia stata sincera?

Il gioco degli specchi

Spesso nella mia vita mi ritrovo ad essere spettatore di esperienze altrui, o meglio, di vicende riguardanti altri. Dopo tanti anni ho ormai notato che alcuni amici tendono a confidarsi con me, e devo confessare che io li ascolto volentieri non solo per aiutarli, ma anche perche’ mi piace conoscere meglio le persone attraverso il giudizio di terzi. Cosi’, mi capita di assistere, popcorn alla mano, a creazioni e dissolvenze di amicizie, amori, litigi, conquiste. Stranamente tutto questa valanga di input mi tocca poco: sono meno empatico di quanto vorrei far credere, ma forse questo e’ un punto di forza quando il tuo ruolo e’ ascoltare e dare qualche consiglio. Tralascio la sensazione di estraneita’ al genere umano che ogni tanto mi pervade. Quello di cui invece vorrei parlare e’ di quanto spesso si sbagli nella creazione delle opinioni, e di quanto sia inquietante tutto cio’.

Non sono un buon giocatore di poker: non possiedo la proverbiale faccia e non riesco essere simulator ac dissimulator come Catilina. Cosi’ accade che a volte, mentre qualcuno si confida con me, questi si accorga che i miei pensieri stanno in realta’ divergendo. Alle volte cerco di cavarmela con un bluff, ma non sempre ci riesco. Il punto e’ che spesso, mentre il flusso confidenziale mi investe, se questo riguarda una terza persona non riesco a non chiedermi che cosa penserei io al suo posto. Cosi’ mi si creano due immagini nella testa della persona che mi sta davanti, quella formata dalle mie esperienze personali e quella creata dai fatti e avvenimenti capitati tra la persona confidente e l’oggetto della discussione. Spesso queste due collidono, e li’ nascono i casini. Perche’ quando sento dire “questa persona si comporta in questo modo con me”, non riesco a biasimarla. Anzi, il piu’ delle volte io mi comporterei nello stesso modo, viste le premesse. E’ una specie di problema della misura: pensando a quello che la terza persona vede, non trovo che la sua interpretazione sia in disaccordo con i fatti che le si presentano davanti. Anche pensando alla storia della loro relazione interpersonale, mi rendo conto che spesso c’e’ stato grande spazio per equivoci, e che un atteggiamento possa esser stato interpretato in due modi. E come si fa ad uscire da questo cul-de-sac?

Ho visto tanti casini emergere nella vita di terzi, che ormai credo non sia possibile creare un metodo per evitare tale immagini. Alla fine della confidenza, ho quasi sempre la presunzione di credere di aver capito gli equivoci che di volta in volta hanno portato a dei patatrac, ma preferisco sempre non vuotare il sacco. Alla fine gli equivoci sono sempre costruiti sull’incomprensione delle persone e sulla relativa incomunicabilita’. Molte persone confondono l’essenza di una persona con l’immagine di essa costruita nella propria mente. E questa illusione ottica e’ divergente, potenzialmente distruttiva, perche’ ha un effetto moltiplicatore. Le persone continuano a studiare l’immagine piu’ che la persona in se’, col risultato di generarne una nuova dall’interpretazione errata di altri avvenimenti. E’ come quando ci si ritrova in mezzo a due specchi, si vede l’immagine, poi accanto l’immagine dell’immagine, e poi piu’ in la’ l’immagine dell’immagine dell’immagine e cosi’ via. Ed ogni copia e’ piu’ distante dall’originale. Arrivati ad una certa distanza, c’e’ la rottura, inevitabile. L’unico modo per evitare questo effetto sarebbe tornare sui propri passi, e dubitare di se’ stessi. Quasi impossibile.

La moltiplicazione

Ogni volta che mi accade di assistere a fenomeni del genere sono un po’ pervaso dalla paura, e mi metto sulla difensiva. Che succede se alla fine sono io quello che crede di aver capito, e che invece sta guardando l’ennesima immagine riflessa nella coppia di specchi? Alle volte penso a me stesso come un pomposo figlio di puttana che crede di sapere sempre tutto – o quantomeno molto piu’ degli altri. E alla fine la domanda “e se mi stessi sbagliando?” torna sempre fuori, e lascia l’amaro in bocca. E’ strano come questo dubbio si applichi anche a questo post, delle cui premesse ora mi vien da dubitare. Forse questa sensazione e’ l’unica che riesco a dissimulare con efficacia, quando qualcuno si confida con me. L’unico risultato e’ che tale sensazione mi impedisce di vuotare il sacco quando coloro che si confidano mi chiedono un’opinione finale. Ma magari non dovrei essere io a valutare l’efficienza nell’unica dissimulazione che mi riesce.

La dualita’ dei libri

La casa di un emigrato a volte e’ innaturalmente spoglia. Non nel senso di vuota, ma proprio nel senso di spoglia, nuda: tutte le cose che ci sono dentro sembrano non essersi mai integrate con i muri circostanti. In fondo riflettono quell’aria di sistemazione provvisoria di qualcuno che non si sa dove andra’, una sorta di perenne fase pre-trasloco. Cosi’ e’ anche la mia stanza da letto, spoglia. E fra le varie cose, il piu’ spoglio di tutti e’ il tavolino che ho accanto al letto. E’ pieno zeppo di libri che non faccio altro che leggere e rileggere, ma non e’ un comodino vero e proprio, solo un tavolino IKEA da 5 euro. Non e’ quasi degno della sua essenziale funzione, permettermi di tenere ad un braccio di distanza quei libri che popolano le mie sere da tempo, e farmeli trovare ogni volta che ho bisogno.

Sono uno che rilegge i libri anche decine di volte. Credo che il record sia di La Grande Fuga dell’Ottobre Rosso, di Clancy. In questo caso siamo ben oltre il centinaio. Trovo curioso questo fatto, in fondo la rilettura e’ uno degli argomenti di cui meno si parla con gli amici, su cui meno ci si confronta. Si parla sempre dei libri che si sono letti, ma quando avete sentito una frase del tipo “Ho riletto il libro…”? Eppure credo di non essere il solo a farlo. Pero’ c’e’ una cosa particolare che mi capita rileggendo i libri, e forse questo non capita a molti. Anche stasera, leggendo “Mortalita’” di Hitchens, mi e’ capitato. Alle volte, specialmente dopo la quarta o quinta rilettura, mi viene naturale associare il libro a una persona che conosco. E quando ho questo pensiero capisco di aver infranto una barriera particolare del libro, e’ come aver sbloccato il bonus level di un videogioco. Mi si fa sempre piu’ forte in testa l’idea che a Tizio o Caio piacerebbe un sacco questo libro, poi ti domandi perche’ tale libro dovrebbe essere apprezzato e da li’ si parte per la tangente. Dedicare nella tua mente un libro a una persona e’ una sorta di meta-analisi del libro: ti permette di riavvolgere il nastro dell’esperienza di lettura, di capire cosa ti ha lasciato il libro, i meccanismi che ha acceso nella tua mente. Sono questi i concetti che vengono associati alla persona, perche’ ritieni che probabilmente essa sara’ capace di avere simili esperienze leggendolo. E poi mi faccio prendere dall’impeto, dall’entusiasmo, e vorrei davvero regalare il libro alla suddetta persona.

Questo entusiasmo, pero’, si spegne sul nascere. Io sono davvero geloso dei miei libri, e difficilmente li regalo, me ne privo. Ogni tanto penso di comprarne una seconda copia, e di regalarla, ma non e’ facile – soprattutto per una persona in fuga come me, quasi sempre lontana dal destinatario teorico. Cosi’ mi ritrovo col libro in mano, e penso che sarebbe bello un mondo in cui i libri si possano sdoppiare, geminare, come i batteri blu di Esplorando Il Corpo Umano che popolano i miei ricordi di bambino. Questo desiderio, rendere un libro da unico a duale, e’ forse un riflesso, il tentativo di tenere viva e forte la sensazione del dono, di non voler uscire dal bonus level. Sarebbe un bel mondo, quello in cui ogni libro e’ doppio. Forse l’unico non troppo contento sarebbe quel tavolino spoglio, che quasi soccombe sotto il peso dei miei libri riletti.

Leggere controcorrente

Per il mio compleanno alcuni cari amici mi hanno fatto dono di un buono Amazon, da spendere come piu’ mi aggrada. E’ stata davvero una bella mossa: sia per loro, che non hanno dovuto scervellarsi piu’ di tanto a scegliere un regalo specifico (che cazzo vorra’ mai un 31enne? e’ una domanda alla quale nessuna risposta soddisfacente e’ data, da secoli), sia per me, che ho potuto togliermi qualche sfizio poco confessabile. No, non ho comprato falli di plastica conici e alti un metro. Ho comprato un libro. Uno di quei libri che e’ nella tua lista da anni, e che ti sfida fin dal titolo. Uno di quelli di cui hai sentito spesso parlare, che tratta di un argomento che avresti sempre voluto approfondire, al cui pensiero sfoderi un sacco di condizionali passati. Insomma, un mattone gigante il cui desiderio non confesserai mai, semplicemente perche’ il suo tema e’ molto distante da qualsiasi conversazione tu possa avere con amici e colleghi. Ho preso “Contro il metodo” di Paul Feyerabend, e lo sto leggendo da alcuni giorni, ogni sera.

“Contro il metodo” dichiara fin dalla prefazione, anzi fin dal titolo, di voler sparare a palle incatenate contro la routine del metodo scientifico. Wikipedia mi informa che e’ stato aspramente criticato all’inizio, ma che poi e’ diventato un successo planetario. Ora, io non voglio entrare nel merito di quanto Feyerabend dice – anche perche’ non l’ho ancora finito, figurarsi se l’ho digerito. Al contrario, voglio focalizzarmi sulla mia personale esperienza di lettura di un tale libro. Perche’ alla fine io, da fisico, il metodo scientifico lo uso tutti i giorni, anzi lo propagando a destra e a sinistra come un modo valido di conoscere perche’ ho provato sulla mia pelle la sua potenza. E leggere un libro che ti dice, con lo stile diretto che ha reso famoso Feyerabend, che e’ l’anarchia a spingere la conoscenza, e non la codifica di un metodo, e’ sorprendentemente difficile. Non esagero quando dico che e’ il libro di piu’ difficile lettura che abbia mai incontrato in vita mia. Il motivo non e’ legato allo stile o alla pesantezza del contenuto – mica e’ l’Ulisse di Joyce – ma all’atteggiamento del lettore. Come si puo’ leggere un libro verso cui hai pregiudizi?

Il libro un pelo ti aiuta nella sua forma. E’ fatto da capitoletti lunghi meno di dieci-quindici pagine, come se Feyerabend volesse che lo prendessi a piccole dosi, un po’ alla volta. Tuttavia, e’ un libro che richiede una non trascurabile dose di concentrazione. Non e’ facile, e’ scritto piccolo, denso, ogni parola va digerita a lungo. E’ un libro per erbivori della filosofia della scienza. La cosa sorprendente e’ che io non riesco a stare concentrato come mi capita su altri libri. E’ il libro stesso a sviarti, perche’ ad ogni paragrafo i miei pensieri partono per la tangente, e sono tutti tesi a confutare l’idea o l’avvenimento storico in seno alla scienza che ho appena letto. Ho come una smania di farlo, mi suona davvero tutto storto. E’ pure frustrante, per uno che si vanta della propria capacita’ di concentrazione. Come si fa ad andare attraverso le 250 pagine con tutto sto casino in testa? Suona come una sfida per me, e’ forse un effetto della sua dichiarazione iniziale cosi’ tempestiva. Lo leggi come se stessi nuotando controcorrente in un fiume: ad ogni capitoletto il libro cerca di tirarti su, e tu senti tutta l’acqua, la familiare acqua che e’ il tuo elemento, e che e’ allegoria dei tuoi pensieri, venirti incontro e spingerti nella direzione opposta. E dopo un po’ non capisci piu’ niente a causa del gorgoglio che ti appanna la vista e ti impedisce i movimenti, mentre senti che il libro ti da’ un altro strattone verso la sorgente. Senza contare poi che gia’ solo il fatto di leggere qualcosa che chiaramente vuole andare contro quello che tu ritieni un modo giusto di procedere e’ una sorta di violenza. E’ come se tu fossi un professore di liceo e dovresti leggere il tema di un tuo alunno che spara un mare di cazzate. Oddio, magari questo e’ una mancanza di rispetto per Feyerabend, la cui profondita’ di pensiero davvero non si merita di essere associata ad un alunno scapestrato delle scuole superiori – e neppure la mia a quella di un maestro dell’argomento, sia chiaro. Pero’ penso che la situazione sia simile, e devi andare avanti a “correggere”, o quantomeno a capire quello che c’e’ scritto, vuoi per dovere o vuoi per rispetto nei suoi confronti.

Ci sono poi alcune cose che mi hanno dato davvero fastidio, come ad esempio il discorso della consistenza della nuova teoria con quelle precedenti, la cosiddetta condizione di coerenza. E’ uno dei suoi primi argomenti, a riprova del fatto che lo stile diretto di Feyerabend e’ davvero asciutto e va dritto al punto. Su questo gli ho dato ragione su tutta la linea, non bisogna essere consistenti con le teorie precedenti, ma con gli esperimenti precedenti, e bisogna pure valutare le barre d’errore di tali esperimenti per poter capire entro quale margine c’e’ spazio per una nuova teoria. Quello che mi ha dato davvero fastidio e’ che lui propagandi questo come un cardine del metodo scientifico che va rimosso. Ora, non sono certo un esperto di epistemologia della scienza quanto lui, ma da par mio ho sempre saputo che la scienza vuole quello che sostengo io e che sostiene lui, non quello che lui cerca di confutare. Questo aspetto del procedimento scientifico l’ho trovato in cento posti diversi, dalle lezioni di Feynman alle reminescenze di Popper che ho dalle superiori. Eppure lui dice, e con dotte citazioni come quella di Newton, che il metodo scientifico prevede la consistenza delle teorie e non degli esperimenti. Non e’ un po’ strano tutto cio’? Suona come una bestemmia per me, dire che il metodo di cui tu in prima persona ne testi l’efficacia ogni giorno codifichi un processo d’indagine diverso da quello che tu hai sempre creduto. Anche questo aspetto e’ suonato come un piccolo oltraggio, che certo non ha aiutato nella facilita’ di lettura. E giu’ di pensieri su cosa tu hai imparato dai libri, su cosa ti e’ stato insegnato e su cosa davvero e’ il metodo da un punto di vista storico.

Come ho gia’ detto, non ho ancora finito il libro. Al netto di tutte queste difficolta’, che – credetemi – sono davvero sorprendenti, non e’ ancora subentrata in me l’inerzia di lettura, cioe’ l’equivalente letterario del muro dei 30 km nella maratona. E’ il momento in cui continui a leggere un libro solo per poter dire di averlo finito, in cui i tuoi occhi vanno avanti col pilota automatico e la porta d’accesso al tuo cervello si e’ gia’ chiusa da un pezzo. Lo trovo ancora un libro interessante, se non altro per il fatto che ci sono ancora molte pagine. C’e’ una speranza non remota che il libro possa essere un crescendo, che cominci con l’artiglieria leggera e poi sfoderi i cannoni da 381, quelli che fanno davvero male ma che sei proprio contento che sparino (le corazzate sono una figata per ogni bambino proprio per questo). Inoltre, Feyerabend e’ davvero bravo nella sistematicita’ dell’analisi. In diversi momenti mi si sono formate nella mente delle obiezioni che ho trovato poi discusse poche pagine dopo. Una sorta di lettura della mente del lettore che provoca vivo piacere. Onore al suo merito, e un po’ anche al mio, per aver scelto un modo tutto particolare di celebrare il mio compleanno.

Non ce la faccio a stare zitto

Da un bel po’ di tempo mi domando se in questo blog c’e’ davvero posto per qualche considerazione politica. Finora ho fatto voto di escluderla dai temi trattati qua dentro, anche se devo confessare che io di politica discuto tutto il giorno su altri canali. Dopo quello che e’ successo ieri, pero’, voglio fare un’eccezione. Non scrivero’ un pippone sulla rava e la fava, ma voglio solo segnalarvi la mia risposta ad un post di Giuseppe Civati, questa. Per cortesia, leggete prima il suo post. Diciamo che oggi mi sento di fare coming out, perche’ ci sono cose – anche e soprattutto per un emigrato – che non possono passare sotto silenzio. Ma vale solo per questo post e per i suoi eventuali commenti. Negli altri post tornero’ a descrivere le mie fughe cerebrali lontano dal pensiero comune e purtuttavia vicine alla realta’, promesso.

Da che parte e’ il pubblico, amico?

Lemmy con gli Hawkwind. Prodromi al concerto alla Roundhouse, 1972

“Dikmik e io eravamo su da circa tre giorni filati, buttando giu’ Dexedrina come caramelle. Poi cominciammo a diventare un po’ paranoici, quindi prendemmo qualche calmante – del Mandrax – ma pensammo che non andava bene perche’ ci calmava troppo, cosi’ prendemmo dell’acido e poi un po’ di mescalina per rendere il tutto piu’ colorato. Cominciavamo a esagerare, pero’, quindi prendemmo un altro paio di Mandrax… e poi dell’altra anfetamina perche’ eravamo di nuovo troppo rallentati. Poi andammo alla Roundhouse. Dikmik era alla guida ed era particolarmente interessato a un lato della strada, cosi’ continuava a sterzare per guardarlo meglio. Alla fine arrivammo a destinazione ed entrammo nel camerino che era pieno di fumo – tutti quanti si stavano facendo le canne. Allora ci sedemmo li’ per un po’ e arrivo’ qualcuno con della cocaina, cosi’ prendemmo anche un po’ di quella, poi’ arrivo’ qualche Black Bombers (o Black Beauties, come le chiamavano negli States, eccitanti, insomma) e ne prendemmo otto a testa. Ah gia’, prendemmo anche un altro po’ di acido. Quando salimmo sul palco, io e Dikmik eravamo rigidi come tavole! “Porca troia, ‘Mik”, dissi io, “non riesco a muovermi, e tu?”
“No”, rispose lui. “Grande, non e’ vero?”
“Gia’, ma dobbiamo arrivare sul palco in fretta.”
“Oh, qualcuno ci dara’ una mano”, mi assicuro’.
Allora i roadies fissarono i tacchi dei nostri stivali in fondo al palco e ci rizzarono in piedi, poi mi misero il basso a tracolla.
“Perfetto”, dissi io, “Da che parte e’ il pubblico, amico?”
“Da quella parte.”
“Quanto lontano?”
“Cinque metri.”
Allora diedi il via: “Un, due, tre, quattro. Cominciamo.”
Fu una delle nostre migliori esibizioni dal vivo di sempre.”

Lemmy, “La sottile linea bianca”, autobiografia.

Il tempo delle cose

L’altra sera ero a bere qualche gin tonic con due mie amiche con cui condivido la stessa situazione di vita. Tra una chiacchiera e l’altra siam caduti su un discorso che ho fatto molte volte con tanta gente, soprattutto emigrata: la comprensione di uno stile di vita diverso da parte di chi non lo ha mai sperimentato. Tutto e’ cominciato quando abbiamo cominciato a parlare dei nostri genitori, e di come a volte non capiscano qual e’ il modo migliore per supportarci nelle nostre difficolta’, avendo loro uno stile di vita e una scala di valori molto diversi. Ci siamo un po’ guardati attorno e dentro noi stessi, e abbiamo visto dei (o delle) trentenni ancora vogliosi di andare in giro per il mondo e fare esperienze che sono normalmente precluse a chi non viaggia, a chi non emigra, a chi non cambia il paradigma della propria vita ogni tot anni. E da li’, una domanda e’ sorta quasi spontanea. Ma da che parte sta il tempo?

La mia risposta immediata e’ stata positiva. Si’, sta dalla nostra. Si’, il tempo per fare tante cose c’e’ sempre. Ci sara’ un tempo per sposarsi ed avere figli, ci sara’ il tempo per cambiare lavoro altre due o tre volte, magari citta’ o paese o continente, trovare nuovi amici, conservare o dimenticare i vecchi. Ho argomentato con un pezzo della mia storia personale, che gia’ da un po’ ho ben digerito. A me e’ stato di grande aiuto cominciare a suonare in giro relativamente presto, da adolescente. Osservando il pubblico ho scoperto un universo di gente che seguiva un paradigma di vita diverso da quello che vedevo nel circondario di casa mia. Parenti, amici di famiglia, vicini di casa, tantissimi con storie “ordinarie”: matrimonio e figli, mutuo e sacrifici, settimana al mare o in montagna, lavoro e casa. Invece ai concerti vedevo bikers 40enni che si erano appena trovati il partner e litigavano davanti a tutti, 50enni che seguivano le band a tutti i concerti e chissa’ se avevano una famiglia, tantissimi che facevano lavori stagionali e si spostavano qua e la’. Insomma, tutti con una vita completamente diversa, eppure percepita sorprendentemente come dignitosa e rispettabile. E li’ mi son detto che non esiste un modo di vivere canonico, non c’e’ un mainstream e qualche marginale rivolo di gente che fa una vita “strana”. Poi piu’ avanti negli anni mi son ritrovato a non esserci proprio nel mainstream, e quest’esperienza mi ha rafforzato nelle mie convinzioni, mi ha consolato, mi ha fatto pensare di non essere parte dei pochi. Perche’ essere parte dei pochi potrebbe significare che non hai fatto la scelta giusta, in omaggio al mai detto ma sempre sottinteso teorema che la scelta migliore e’ quella percorsa piu’ spesso. No, ho detto a me stesso mentre cercavo di convincere loro, non esiste una via principale.

Tornando a casa, pero’, son stato tormentato dal dubbio. Ma davvero una persona ha tutto il tempo di fare quel che gli pare? Voglio dire, volente o nolente un legame con le tue origini, o meglio con il modo di vivere del posto in cui vivi, ti rimane sempre. E per un po’ di anni vai avanti con questa bugia dicendo agli altri che si’, per un po’ di tempo starai via, ma poi tornerai, che i soldi che stai mettendo via sono per un mutuo futuro, per una casa da comprare, come se tu sapessi che chiunque deve tornare al modo originario di vivere. Che anche se deciderai di vivere in qualche altro paese, alla fine metterai sempre radici, ti fossilizzerai e metterai su famiglia, il paradigma di vita che i tuoi genitori ti hanno insegnato col loro esempio verra’ di nuovo fuori. Ma come potra’ accadere tutto cio’ mentre sei impegnato a fare altre cose nella tua vita? Magari spendere un anno sabbatico da qualche parte, cambiare citta’, metterti a scrivere quel libro che hai gia’ in testa da anni, esplorare nuove professioni. Ci vorrebbero 20 anni solo per ricavare la giusta soddisfazione da tutte queste cose. E passati quei 20 anni non puoi fermarti e dire OK, ora mi reinvento un altro stile di vita e lo vivo con la stessa intensita’. Non hai il tempo di godere appieno di tutte le cose che hai in mente, di coltivare quel che e’ dentro di te per un periodo sufficiente a darti la soddisfazione, la pienezza di cui hai bisogno per mettere un punto, per dire che ce l’hai davvero fatta. E qui e’ cominciata l’inquietudine. Non e’ che e’ il tempo stesso – o meglio, il tempo che le cose necessitano – a dirti che strada prendere mano a mano che vai avanti nella tua vita? Che magari sei li’ a dirti che ti devi accontentare, che ti conviene prendere una strada fatta di cose che sono ragionevolmente realizzabili nel lasso di tempo che ti rimane, e che e’ meglio lasciar perdere il resto? E’ questo il segreto, la condanna dell’essere adulti?

Arrivato a questo punto ho avuto un moto di stizza. Fanculo – pensavo – ci vorrebbe una vita lunga 200 anni almeno! Ma poi e’ arrivata la salvifica ironia. Perche’ anche se avessimo una vita lunga 200 anni o piu’, probabilmente troveremmo dei nuovi modi di vivere che hanno un tempo di esaurimento ben piu’ lungo, cosicche’ saremmo di nuovo punto e a capo. Anche se vivessimo per secoli, ci lamenteremmo sempre del tempo che manca, e di quanto sia in fondo lui a scegliere per noi la cosa giusta da fare. Non e’ un’ironica fregatura? Ma in fondo se un problema non ha vera soluzione, non vale troppo la pena di continuare a cercarla. E di colpo tutto e’ diventato leggero, al punto da far sembrare pesante anche un lieve mal di testa provocato dal gin tonic.

Writing your XXXX in fifteen minutes a day

Un po’ di tempo fa sono andato a un corso interno del mio istituto riguardante le tecniche di scrittura. Un corso interessante, niente da dire, piu’ che alcune tecniche mostravano alcuni modi mentali da tenere durante la scrittura. Non e’ stato tempo perso. Alla fine della lezione consigliavano un po’ di bibliografia, e tra i vari libri scelti ce n’era uno, Writing Your Dissertation in Fifteen Minutes a Day, scritto da Joan Bolker. Sono sempre stato un po’ restio per questo genere di libri, che non trattano di contenuti, ma di modi. Ricordo sempre in libreria la sfilza di libri su come diventare manager di se’ stessi, come avere a che fare col capo o col subordinato ed altre cazzate sesquipedali che mi hanno sempre fatto venire l’orticaria (l’orticaria di questi tempi mi viene spesso, non so se l’avete notato). Eppure a questo libro ho voluto dare una chance, anche perche’ ero spinto a prenderlo dall’insegnante del corso. Mi sono fidato, l’ho ordinato su Amazon e ieri notte l’ho letto di un fiato.

Ebbene, non son stati soldi buttati, anzi. Diciamo subito che non sara’ utilissimo per la scrittura della tesi di dottorato, anche perche’ ormai sono in dirittura d’arrivo e la seconda revision e’ ormai completata. Pero’ con il tema sono entrato subito in sintonia, perche’ sapevo intimamente di cosa si parla. Come per il corso, non si speri di trovare contenuti o capitoli pronti: questo libro parla di modi mentali, di quello che succede a te stesso mentre scrivi la tesi. Ho trovato scritte in bello stile alcune cose che avevo gia’ scoperto per conto mio, mi ha aiutato a delineare contorni definiti su concetti prima nebulosi. E, la cosa piu’ importante di tutte, mi ha stupito con nuovi concetti che mi son suonati istantaneamente aderenti al vero, e per esperienza personale. Sorvoliamo sul continuo ripetersi di domande come “che cosa voglio dire qua dentro?” o “qual e’ l’aspetto che piu’ risalta in questo paragrafo?”, che trovo francamente noiose e poco stimolanti; quello che mi ha colpito e’ il concetto di revisione del proprio testo. Nel libro non ci sono solo tips utili come creare una versione ridotta di ogni capitolo con una frase per paragrafo, lasciare l’editing nella scala delle singole parole e lo smoothing dei passaggi verso le sezioni per ultimi, usare le orecchie per aiutarsi con le interpunzioni e gli occhi per armonizzare la suddivisione dei paragrafi. Ho provato a fare queste cose su un capitolo della tesi e sono di una profondita’ sorprendente, ti mettono in comunione col tuo scritto, fanno sentire la tesi come un pezzo di macchinario che hai costruito tu e di cui curi la messa a punto, sono veicolo di un nuovo concetto di proprieta’. Ma oltre a questo, la cosa piu’ sorprendente – quasi un pugno nello stomaco per me – e’ la considerazione che la revisione di un proprio testo e’ un modo di mettersi a nudo, e di scardinare la propria pudicizia. Non riesco a dirlo meglio della Bolker, quindi preferisco quotare integralmente, limitandomi alla traduzione (il libro e’ in inglese).

Quando ero una giovane scrittrice, avevo molto poco interesse nella revisione. L’idea di hackerare le parole che avevo gia’ messo giu’ su carta, di cambiarle o anche di scartarle, mi colpiva in modo spiacevole e dannoso. Fondamentalmente non credevo di poter fare qualsiasi cosa meglio se avessi continuato a lavorarci su. In parte, non ci credevo perche’ non realizzavo che, come ogni lavoro che valga la pena di fare, scrivere costa fatica. Non sapevo fosse possibile stancarsi dello scrivere, o annoiarsi, e tornarci su comunque. Ma dietro a queste sensazioni di noia o sfinimento, ce n’erano altre piu’ spaventose: non credevo realmente di avere altre parole nel luogo da dove erano venute quelle che avevo gia’ scritto, cosicche’ suonava rischioso alterare o scartare ogni singola parola che avevo gia’ messo giu’. Volevo lasciarle li’, e pensare che avevo finito con loro anche se non era vero, non volevo sollevare dubbi o lo spettro che avrei potuto, con uno sguardo piu’ attento, scoprire di non aver detto niente o di non aver niente da dire.

Poiche’ ero capace di scrivere velocemente, una volta finito il primo draft, non avevo mai scoperto quanto potrei essere brava a scrivere. Revisionare il mio scritto potrebbe significare esplorare i miei limiti, forse decidere di espanderli; ma probabilmente potrei anche dover rinunciare alla mia fantasia che, lavorandoci su duramente, potrei scrivere come Virginia Woolf. L’altro terrore, per essere chiari, era anche piu’ grande. Rispondevo scrivendo in un linguaggio privato. Quando i lettori mi dicevano che non potevano capire di cosa stessi parlando, io ero sia stressata che segretamente rincuorata. Diventando vecchi, trovai che avevo alcune cose da dire e che avevo sentito. A quel punto divenne per me necessario scrivere nella lingua comune, e revisionare.

Rendere completamente chiaro il tuo scritto significa anche diventare molto vulnerabili. Se qualcuno puo’ scoprire dal tuo scritto cosa credi, o come ti senti, o dove sei, allora egli puo’ gradire o non gradire, concordare o dissentire, congratularsi o criticizzare quello che hai scritto. Fino a quando stai nascosto in uno scritto opaco od oscuro, sei salvo. Don Graves ha enfatizzato succintamente questo dilemma: “devi voler essere un nudista professionale se vuoi diventare uno scrittore”. Se stai avendo qualche problema nel rendere il tuo scritto chiaro, considera se lo vuoi davvero.

Questi tre paragrafi sono stati come un maglio, e su piu’ livelli per giunta. Riguardano la mia tesi di dottorato, certamente. Ho memoria di diversi momenti in cui il mio team leader diceva “non capisco appieno quello che scrivi”, e ora questi ricordi mi fan sentire nudo nella mia candida inadeguatezza. E riguardano pure gli altri scritti che ho prodotto nella mia vita, compreso questo blog. Mi sono riletto tantissime volte, e ho sempre trovato piacere nel rileggermi, ma non ho mai avuto un vero feedback da me stesso. Ho un maledetto senso di autocompiacimento che mi colpisce ogni volta che riguardo qualcosa di mio: che sia un effetto collaterale, l’altra faccia della medaglia assegnata a colui che e’ piu’ pudico di quanto voglia ammettere? Eppure ricordo di essere sempre stato aperto alle correzioni altrui e alle critiche mie personali. Spesso dimostro poco attaccamento alle mie cose e non mi pento di modificarle anche cento volte. Pero’, dopo aver letto questo libro, ogni quadro e’ incrinato. Sono diviso tra la voglia di essere meno pudico e il terrore di non volerlo intimamente essere. E sono pure metadiviso, perche’ non capisco il perche’ di questa voglia o di questo terrore.

Ieri notte, finito il libro, ho deciso a cuor leggero di fare qualcosa suggerito dal libro stesso. Instaurare un’abitudine, o almeno ci si prova: scrivere ogni mattina, appena sveglio, quello che mi passa per la mente per 10 minuti senza alcuna interruzione. Questo post e’ il risultato (in bella copia, e revisitato) di quanto ho scritto oggi, e secondo me le XXXX del titolo rispecchiano bene quest’abitudine. In fondo non sai mai cosa ti capita di scrivere, ma spesso tra il rumore trovi piu’ cose interessanti di quanto ti aspetti. Un post costruito su consiglio di un libro, che riguarda il libro stesso e il concetto di revisione di un post. Lo dicevo io, che non son stati soldi buttati.

Il teorema di incompletezza dell’emigrato

In questo periodo in cui manca tutto (soprattutto il tempo) rifletto spesso sul futuro, non solo per focalizzarmi su un obiettivo, per tener ferma la bussola, ma anche per cercare di capire quello che mi aspetta. Pur con tutti i problemi professionali che mi tiro dietro, una parte di me – certo incentivata anche dalle opinioni altrui sul mio conto – cerca di convincere il resto che in fondo sono messo bene, che mi aspetta una vita dignitosa, che non saro’ soggetto a molti problemi che invece affliggono gli altri. Sara’ un po’ la mia tendenza a sviscerare e razionalizzare, ma non riesco a dare ragione a quella parte. C’e’ un concetto che ormai si materializza spesso nella mia mente, e non mi permette di essere convinto al 100% di quello che ho fatto, faccio e faro’: l’incompletezza dell’emigrato.

In tutti questi anni fuori dall’Italia non sono mai stato capace di tagliare i ponti. Ancora oggi per sapere le news guardo i siti italiani, parlo con amici italiani, discuto di vicende italiane. Da molto tempo cerco di capire il perche’, e non molto tempo fa ho trovato una risposta che non sia banale, insoddisfacente. E’ il piacere di comunicare “a banda larga”. No, non mi riferisco al linguaggio di per se’: sebbene ancora non sia performante con il tedesco, ormai con l’inglese sono sufficientemente fluente da aver avuto discussioni amorose (aka litigate) con notevole flusso di dati dal cervello alla mia bocca, e senza perdere un colpo, senza ragionarci su, anzi sentendomi a mio perfetto agio. Mi riferisco invece al contenuto della comunicazione. Solo con chi parla la mia madrelingua sento di avere milioni di cose di cui parlare, scherzare, anche incazzarsi. Deriva dal conoscere tutti i dettagli che rendono uno scambio comunicativo piacevole (almeno per me). Lo scherzo, la battuta, l’allusione, il doppio senso, la critica nascosta, lo stuzzicare, sono tutti elementi che percepisco come unici non solo della lingua, ma anche della cultura del mio paese. Tutte cose che mi mancano come l’ossigeno, e che non riesco a supplire nemmeno stando con altri italiani emigrati. Il mio cervello ne sente il bisogno, quasi come un’auto che ogni tanto necessita di essere messa a tavoletta, per un fulmineo sorpasso o per un tratto a velocita’ massima. La coniugazione fra velocita’ di pensiero e velocita’ di comunicazione e’ uno dei massimi piaceri, e questo accade ogni giorno piu’ raramente.

Questo pero’ non e’ l’incompletezza di cui parlo. Il secondo elemento, inconciliabile con il primo, e’ ormai un senso di insofferenza e di intolleranza verso le stesse qualita’, gli stessi modi che mi permetterebbero di aprirmi. Ormai mi sento castrato ogni volta che sento parlare delle vicende italiane, non solo per lo squallore di certe vicende, ma anche e soprattutto per il modo in cui vengono vissute e risolte (quando capita). Non mi riconosco piu’ nel modo di pensare della maggior parte di coloro che usano il metodo di comunicazione principale che uso, l’unico che mi permetterebbe di far fluire cio’ che ho in mente ad alta velocita’. Non approvo l’analisi, non approvo le soluzioni, non approvo nemmeno i processi logici, le priorita’ e le astrazioni di coloro con cui potrei comunicare come vorrei. Questo vale sia sui massimi sistemi, cioe’ la societa’ generale, che su quelli minuscoli, cioe’ le singole persone o i piccoli gruppi. E’ una dicotomia che ti corrode: da una parte hai tantissime nuove persone che hanno qualcosa di diverso da dire e con le quali non riuscirai mai a comunicare come vorresti, dall’altra hai davvero l’occasione di aprirti, ma nel 99% dei casi la discussione non ti piacera’. Quando devi decidere del tuo futuro, sai che starai male da morire se torni, e sai che non starai bene se te ne stai lontano. Niente botte piena e moglie ubriaca: solo un gran senso di incompletezza, che incrina anche le tue speranze piu’ cristalline.

Il parallelo con il lavoro di Gödel, sebbene stirato al punto da renderlo illogico, non rigoroso, un po’ calza, mi soddisfa. E’ un qualcosa a cui non puoi sfuggire con gli stessi concetti con cui definisci il tuo essere parte di un insieme. Perche’ penso sia un teorema? Perche’ dopo averlo identificato, mi sembra palese che, chi piu’ chi meno, esso sia riscontrabile in ogni persona emigrata che conosco, o perlomeno in ognuna con cui sia entrato un minimo in confidenza. Ancora non riesco a capire se cio’ sia vero, o se sia solo l’umana voglia di applicare a tutto la propria teoria preferita, e crogiolarsi nell’autocompiacimento (quando quello che hai e’ un martello, tutto ti sembra un chiodo, diceva Murphy). Di questo in fondo mi importa poco. Quello che importa e’ il sapere che non sono il solo a sentirsi incompleto, ad essere quasi destinato all’incompletezza. Non e’ una specie di mal comune mezzo gaudio, anche perche’ ancora non riesco a confrontarmi dal vivo su un tema del genere. Solamente, mi viene in soccorso la consapevolezza di essere uno dei tanti a cui capitano queste sensazioni. Poco importa se non tutti riescono a capire di che si tratta. E poi, vedere che, dopo tutto, ad essa si riesce a sopravvivere non mi fa naufragare quando mi capita di riflettere sul futuro.

Anche Feynman ha ragione

Richard Phillips Feynman e’ stato un fisico davvero particolare, diventato un mito per molti fisici non solo per i suoi brillanti risultati, ma anche per la sua personalita’ e il suo talento nel capire ed insegnare. Soprattutto per questo motivo e’ diventato un’icona, al punto che su di lui si sono scritti libri e raccolto materiale. Tempo fa ho vista una sua intervista molto piacevole, “The pleasure of finding things out”, prodotta dalla BBC nel 1981. Due temi in particolare mi hanno colpito, li ho sentiti miei e mi hanno dato conforto. Il primo riguarda la spiritualita’ dello scienziato, in particolare il suo modo di cogliere la bellezza delle cose e la non inferiorita’ del suo approccio. Di questo ho gia’ parlato. Il secondo e’ una riflessione su un argomento per me di grande attualita’, su cui mi trovo a riflettere proprio in questi mesi.
E’ da un po’ di tempo che dedico il mio tempo libero a studiare un po’ di economia, spinto dalla voglia di capire i perche’ della crisi europea. Son partito da alcuni libri di divulgazione, e ora mi ritrovo a leggere working papers del FMI o della Banca d’Italia, riviste come Cambridge Journal of Economics (a cui ho accesso grazie alla MPG) e altre cosette come gli ultimi premi Wolfson. Dopo questo piccolo training, guardando le segrete carte di come si fa la scienza economica al giorno d’oggi, ho una vocina nella mia testa che si fa sempre piu’ forte. A parlare e’ la parte piu’ seria del mio io, quella su cui ho deciso di costruire la mia carriera da fisico sperimentale e su cui la mia indole puo’ trovare massimo spazio. Questa voce e’ un disturbo, un rumore che si fa sempre piu’ grande. Possibile che la scienza economica sia davvero cosi’ elementare, basata su approssimazioni cosi’ grossolane ed autoreferenziali, fondata su calcoli statistici e su quantita’ cosi’ aleatorie e piene di variabili nascoste? Ma davvero questa e’ scienza? Lo dico per esperienza personale, ho la fortissima sensazione che coloro che raccolgono ed analizzano dati in economia non applichino il rigore, l’onesta’ e la criticita’ che io impongo tutti i giorni nel mio lavoro da fisico.
E’ un po’ un discorso di forma mentis, o meglio, di metastrumenti di indagine. Dopo diversi anni in cui applichi pedissequamente un metodo, acquisisci una serie di metastrumenti che ti permettono di valutare quasi a colpo d’occhio se altri lavori sono stati ottenuti con un metodo paragonabile oppure no. Se un articolo di fisica presentasse dei dati con lo stesso rigore di alcuni articoli di economia, questo verrebbe rigettato all’istante e sputtanato alla prima conferenza pubblica in cui l’autore partecipa come lecturer. Lo so perche’ l’ho visto fare con i miei occhi, e tante volte anche. Gente che non prendeva in considerazione l’esistenza di errori sistematici, che non si inventava test per escluderli, che non forniva barre d’errore e non offriva riflessioni sui limiti della propria analisi. Da una parte vedo questa serieta’ e dall’altra vedo che basta una cazzo di retta di regressione costruita su dati ricavati chissa’ come per fare un articolo che sara’ poi citato da altri come risultato acquisito. Ho visto equazioni differenziali semplicissime elevate a grande risultato senza un discorso serio sulle assunzioni che si sono fatte per costruirle, gente che ha costruito modelli macroeconomici con formule ipersemplificate. Tutto cio’ mi sta sconcertando ogni giorno di piu’.
Non ho la stessa esperienza sulle altre scienze sociali (dalla giurisprudenza alla sociologia, passando per la psicologia – e ci metto dentro pure la medicina) come ce l’ho per l’economia. Ho visto meno e analizzato meno. Pero’ ho la spiacevole sensazione che alcune di queste siano addirittura messe peggio, che si facciano chiamare scienza solo per ammantarsi di rispetto, ma che di scientifico abbiano ben poco. Ogni giorno che passa, penso sempre piu’ che abbia ragione Feynman.

George Carlin ha ragione

Io non voto. Il voto non e’ un dovere, e’ un diritto che ci si puo’ permettere di non esercitare, e francamente la retorica del “se non voti, niente cambiera’ e non puoi lamentarti” mi fa vomitare. E’ vero il contrario, se voti NON puoi lamentarti di chi hai contribuito ad eleggere, ed e’ ormai garantito che chi andra’ al potere NON risolvera’ alcun vero problema. Se non altro perche’ loro hanno contribuito pesantemente a crearli. E poi, altra roba che sento in giro, “c’e’ gente che e’ morta per permetterci di votare”. Come se oggi il fatto di votare e non votare fosse in pericolo. Se in un futuro sara’ in pericolo, saro’ in prima fila a protestare, tranquilli. Ma io non voto uno stronzo solo perche’ puzza meno. Oppure quelli che “se non voti, devi accettare qualunque cosa venga fuori dall’urna”. Sapete cosa? PPPPPPRRRRRRRRRRRR! Col cazzo! Non si puo’ attribuirmi la responsabilita’ di una scelta quando questa scelta io non l’ho fatta, solo perche’ la fanno altri. Insomma, a me la propaganda pro-voto fa veramente cagare.
Perche’ alla fine questa campagna elettorale ha dimostrato che nessuno ha veramente a cuore i concetti basilari dello stato. Nessuno che dimostri di cogliere la preziosita’ di certe conquiste. Tutti invece pronti a cedere sovranita’ all’UE senza domandarsi se le istituzioni che la riceveranno siano ugualmente democratiche. Tutti tralasciano il fatto che la nostra Costituzione ha tutta una serie di meccanismi di pesi e contrappesi che il Trattato di Lisbona non ha, e trasferire i poteri e’ un passo indietro. Tutti pronti a difendere conquiste che peggiorano il benessere dei popoli in nome di un sogno europeo che non si realizzera’ mai fino in fondo. Tutti che vogliono andare avanti nella strada dell’indipendenza della banca centrale, lasciando lo stato in balia del mercato per finanziarsi. Tutti pronti a mantenere lo status quo, schiavi della propria ignoranza sui piu’ alti temi.
Beh io questo modo di fare, queste persone non le legittimo con il mio voto. Anzi, credo che sia controproducente un atteggiamento del genere. Con il concetto del meno peggio, uno incentiva la mezza merda ad essere tale, e non la spinge mai a rinnovarsi e a cambiare.

“Per quanto riguarda me, staro’ a casa e faro’ essenzialmente la stessa cosa vostra. L’unica differenza e’, quando io finisco di masturbarmi, io avro’ qualcosina da mostrare, gente.” George Carlin